Platone non è poi così cattivo. (Forse!)

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Platone non è poi così cattivo. (Forse!)

Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Una delle sfide più intriganti del mio mestiere consiste nel discutere con i ragazzi l’idea politica di Platone, in particolare per come viene disegnata nella Repubblica. Quelle pagine offrono ancora ai critici materia per accusare il filosofo greco di misoginia e autoritarismo e, in fin dei conti, di aver formulato una proposta politica disumana. In effetti, Platone fa dire al Socrate protagonista del suo dialogo che lo stato ideale deve essere diviso in classi sociali, fondate sulla diversa natura degli uomini. Per noi moderni, figli della Rivoluzione Francese, una simile idea risulta immediatamente inaccettabile, perché contrasta con la naturale uguaglianza di tutti gli uomini affermata nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino. Platone non era propriamente un giacobino, si sa, ma è certo che non pensava a un sistema di caste o a una società articolata in ceti, in cui la nascita determina il destino di ciascun individuo e da cui è bandita ogni mobilità sociale. Al contrario, l’ormai anziano Platone, spiega che per «natura» si debba intendere non il sangue o il lignaggio, bensì la propensione a svolgere una certa attività: così che, se per qualcuno è facile e piacevole apprendere e praticare ciò che per qualcun altro invece è difficile o penoso, lo stato ideale sarà quello in cui ognuno possa svolgere la funzione che gli riesce meglio (il ciabattino, il soldato, l’amministratore…) e proprio per questo sarà felice e renderà felici anche coloro che beneficeranno di quell’attività. E’ esattamente su questo principio che Platone può negare la legittimità di una divisione a priori dei ruoli maschili e femminili, formulando la prima e più potente argomentazione della parità di genere. Con qualche resistenza, gli studenti finiscono per concordare: in fondo è quel che pensano anche loro. Le cose invece si complicano quando Platone argomenta che, proprio da quanto detto, consegua necessariamente che, in particolare le classi a cui sono affidati la guida politica e la difesa della città, debbano rinunciare alla proprietà privata e anche al matrimonio: «donne e figli devono essere in comune; i genitori non devono sapere chi è loro figlio, e i figli devono ignorare chi, in particolare, è loro genitore». Sembra abbastanza evidente che Platone stia proponendo l’abolizione della famiglia. Inevitabilmente, tra i banchi si materializzano immagini di soldati che strappano i neonati alle mamme, con tanto di urla strazianti. Come si fa a difendere una tale oscenità? Tanto più che Platone, a questo punto, si avventura a descrivere un progetto eugenetico che lo farebbe apprezzare più a Sparta che ad Atene. Ma la domanda da farsi non è questa: piuttosto ci si deve chiedere perché la comunanza dei figli sia necessariamente implicata dal principio del riconoscimento delle prerogative individuali. E’ infatti verso questo nodo che Socrate conduce rapidamente i suoi interlocutori, portandoli a riconoscere che è massimamente infelice la città in cui i cittadini «non usano concordemente le espressioni ‘il mio’ e ‘il non mio’», ovvero quella in cui il bene dell’uno non coincide col bene dell’altro e l’interesse privato prevale su quello pubblico. Ecco spiegata la necessità: fare in modo che ogni bimbo si senta figlio della città e che ciascun cittadino si senta genitore di ogni bambino e non di qualcuno in particolare, serve innanzitutto a dare a tutti i figli le stesse possibilità di realizzare se stessi e in secondo luogo ad evitare che il figlio del contadino finisca per fare il contadino mentre l’incarico prestigioso viene affidato al figlio del notabile.

Non ho mai capito se sia davvero possibile interpretare Platone così, ma io ai miei studenti provo a spiegare che non si tratta di cancellare la famiglia e che non serve mandare i soldati in sala parto: è con la scuola – una scuola pubblica, laica e democratica – che una città si prende cura indistintamente di tutti i suoi figli e trasmette loro in eredità tutti i suoi beni più preziosi. Ed è innanzitutto a scuola che i figli di ciascuno imparano a prendersi cura della casa di tutti.

nicola zuin, marzo 2017
sottobanco
articolo pubblicato sul n. 494 di UCT

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