Gaza e l’infanzia rubata

Nella quinta guerra in 15 anni, sono morti già 3.600 bimbi palestinesi. Chi resta, cresce tra il piangere i morti e il culto del martirio: ci vuole il permesso per uscire e andarsi a curare. La cattività è il terreno fertile per la radicalizzazione

FRANCESCA MANNOCCHI

La Stampa, 05 Novembre 2023

4 minuti di lettura 

©GianlucaPanella
©GianlucaPanella 

Dal 2008 al 6 ottobre 2023, secondo quanto riferito, 1.434 bambini palestinesi sono stati uccisi, con altri 32.175 feriti, principalmente per mano delle forze di occupazione israeliane. Di questi, 1.025 bambini sono stati uccisi nella sola Gaza. 

Oggi, a quasi un mese dall’inizio della guerra, la quinta in quindici anni, ne sono già morti circa tremilaseicento. 

I numeri sulle conseguenze sui bambini palestinesi negli ultimi 15 anni sono riassunti dall’ultimo rapporto della Relatrice Speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, Francesca Albanese. 

Tra il 2019 e il 2022, 1.679 bambini palestinesi e 15 bambini israeliani hanno subito lesioni fisiche permanenti – si legge nella relazione -. Si stima che ogni anno una media di 500-700 bambini palestinesi siano detenuti dalle forze di occupazione israeliane, con una stima di 13.000 per lo più detenuti arbitrariamente, interrogati, processati in tribunali militari e imprigionati dal 2000. 

«L’inferno di oggi non può oscurare la violenza degli ultimi decenni -scrive Albanese -. Per affrontare la crisi, è imperativo comprendere cosa l’ha provocata. Ciò non significa giustificare o minimizzare gli atroci crimini contro i civili israeliani del 7 ottobre; piuttosto ci costringe ad affrontare quell’orrore nel contesto di ciò che lo ha preceduto». 

Per capire il contesto, ci aiutano i numeri.

Delle due milioni di persone che abitavano la Striscia prima della guerra, circa la metà è composta da minori, e avere tredici, quattordici, quindici anni, a Gaza, oggi, significa che tutto ciò che si conosce è il regime di Hamas, il blocco israeliano, e un ciclo di guerre, macerie e ricostruzioni. A Gaza, chi oggi è un adolescente, non ha mai sperimentato nient’altro. Tutto quello che conoscono è questa piccola striscia di terra in un ciclo infinito di violenza e morte. Cattività mista a sentimento di vendetta, gli ingredienti che rendono fertile il terreno della radicalizzazione. 

È questa una delle chiavi con cui leggere oggi il conflitto in corso. Immaginando, sperando, che la guerra finisca domani, da dove partire per spezzare il circolo vizioso della ferocia. Da dove partire per interrompere l’automatismo che ha reso la violenza l’unica risposta alla violenza? E prima ancora: cosa non è stato fatto nelle guerre precedenti, quando è cessato il fuoco e il conflitto sembrava finito ma evidentemente non lo era? 

Nel 2016, a meno di due anni dalla fine della guerra che nell’estate del 2014 aveva devastato la Striscia di Gaza, l’Ocha, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Coordinamento delle Azioni Umanitarie, aveva organizzato una conferenza sul rischio di radicalizzazione giovanile. 

Il combinato dell’insicurezza, la cattività e i bisogni umanitari non soddisfatti, dicevano i funzionari Onu, stavano creando le condizioni per l’estremizzazione delle giovani generazioni. 

I delegati partivano da un dato: nel 2016, dato che la libertà di movimento era praticamente inesistente, il 90% dei 260.000 studenti delle scuole gestite nella Striscia dall’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi, non aveva mai lasciato la Striscia di Gaza in tutta la loro vita. 

«Quando guardo alla regione, avverto il rischio di radicalizzazione dei giovani disperati», aveva detto Pierre Krähenbühl, Commissario Generale dell’Unrwa, «penso a Gaza, alla Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, dove il governo militare e l’occupazione definiscono ogni aspetto della vita pubblica e privata, dalle restrizioni di movimento alle demolizioni punitive di case e all’espansione illegale degli insediamenti. Non c’è modo di quantificare il costo umano cumulativo dell’occupazione». Alle preoccupazioni si sposavano gli appelli alla comunità internazionale, l’Unrwa versava già in una profonda crisi economica, le risposte dei donatori e dei governi erano già fortemente lacunose e tradotto nella vita quotidiana dei cittadini e dei bambini significava meno accesso a beni di prima necessità, meno scuole, in una parola meno speranza nel futuro in un’area in cui il tasso di disoccupazione giovanile arrivava già al 60%. Gli appelli alle donazioni sono rimasti pressoché inascoltati, e i sottofinanziamenti hanno piegato sempre di più la popolazione, perché l’Unrwa, a Gaza in particolare, non è solo un’agenzia umanitaria, ma è un’arteria della vita dei palestinesi che, da quegli aiuti, dipendono quasi interamente. 

I dati e le statistiche sull’infanzia dei bambini palestinesi a Gaza e in Cisgiordania sono una preoccupante fotografia del presente e dovrebbero essere un allarmante richiamo per il futuro. L’ultimo report di Save the Children, di pochi giorni fa, tiene insieme i dati pre-guerra e quelli attuali. I Territori Palestinesi Occupati – scrivono i ricercatori – rientrano nella lista dei 10 Paesi peggiori in cui vivere per i bambini. Basti questo paragone: nel 2021 l’Afghanistan e i Territori Palestinesi Occupati hanno registrato il più alto numero di bambini uccisi o mutilati a causa di un conflitto. «La situazione economica, sociale e politica di oltre cinquant’anni di occupazione da parte di Israele, sommate ai conflitti in corso, hanno continuato ad avere gravi implicazioni per i minori», si legge nel rapporto: complessivamente in tutti i Territori palestinesi occupati, due milioni e mezzo di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria, un milione e duecentomila sono bambini. Nella Striscia di Gaza la situazione, anche prima della guerra, era allarmante, soprattutto dal punto di vista sanitario. I bambini che avevano bisogno di cure mediche dovevano richiedere un permesso speciale per lasciare la Striscia e, nei primi sei mesi del 2023, 400 bambini nella sola Gaza, non hanno potuto ricevere le cure di cui avevano bisogno in Cisgiordania. 

Due bambini al giorno impossibilitati a curarsi per malattie gravi, croniche. Nessuna visita specialistica, nessun intervento chirurgico, nessun accesso ai farmaci urgenti o salvavita. 

Non va meglio in Cisgiordania, dove più di un milione di bambini non ha libertà di movimento. Una mobilità ostacolata dai check-point israeliani, dalle restrizioni, dalle minacce regolari da parte dei coloni, dal timore di violenze ai posti di blocco. Dal terrore degli arresti. Secondo gli ultimi dati di Save the Children, nelle carceri israeliane sarebbero trattenuti dai 500 ai 1000 minori, quasi la metà ferita al momento dell’arresto. Non va meglio all’istruzione. Mezzo milione di bambini e bambine palestinesi non ha accesso a un’istruzione di qualità. Le scuole rischiano di essere demolite, le attrezzature confiscate, spesso le forze armate israeliane fanno irruzione nei pressi o all’interno degli istituti scolastici usando lacrimogeni. Più di 80 scuole in Cisgiordania devono affrontare la presenza quotidiana delle forze israeliane, e più di 58 scuole sono attualmente sottoposte a un ordine di demolizione o di interruzione delle attività. Tradotto nella vita quotidiana dei bambini palestinesi significa un aumento costante dell’abbandono scolastico. 

Per motivi diversi – l’assedio, le guerre, il regime di Hamas, a Gaza, la violenza dei coloni e le limitazioni alla mobilità in Cisgiordania – una generazione di giovani palestinesi sta crescendo, perdendo fiducia nel valore della politica, del compromesso e della diplomazia e degli aiuti internazionali. 

Una generazione che cresce in un’intermittenza di guerre. 

I conflitti irrisolti non solo non si sono dissipati con lo scorrere del tempo, ma si sono aggravati in assenza di soluzioni giuste. 

Probabilmente anche questa guerra, come le precedenti, dimostrerà che non esiste una soluzione militare al problema di Gaza, perché il problema di Gaza non è solo eradicare Hamas, il suo braccio armato, e l’organizzazione del potere, della burocrazia e del welfare che ha espresso nella Striscia per sedici anni. Trovare una soluzione per Gaza e per la sicurezza dello Stato di Israele significa trovare la formula per spezzare il circolo vizioso della violenza. Ogni scontro negli ultimi quindici anni, ogni nuovo ciclo di attacchi, ha spinto un numero crescente di giovani verso le frange radicali e gruppi estremisti. 

E, d’altro canto, una vita di privazioni e stenti, trascorsa tra il vivere la guerra e cercare di dimenticarla, tra il piangere i morti e il culto del martirio che ne deriva, ha storicamente portato a fomentare nuovi cicli di radicalizzazioni. 

Salvare i bambini palestinesi dall’esposizione al rischio di estremismi è la sfida della comunità internazionale ma anche la sfida interna allo stato di Israele che sta pensando oggi a combattere un nemico nel presente, senza chiedersi cosa sarà di Gaza domani, quale sarà il futuro della Striscia, come evitare che si sia un’altra generazione che associ la vita quotidiana alla guerra, alla morte e alla vendetta.

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