Interpretazioni del Risorgimento

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(Elaborazione di materiali tratti da 150anni.it)

1. Tra la Fine XIX-inizio XX secolo

  • Già dai primi anni successivi all’unificazione il ricordo degli avvenimenti che avevano portato alla nascita dello Stato nazionale fu caratterizzato da polemiche, conflitti, rotture.
    – C’era un’Italia monarchica e ufficiale che considerava casa Savoia come protagonista principale e quasi unica del Risorgimento, tanto da lasciare in ombra perfino il ruolo di Cavour, che pure era stato assolutamente decisivo;
    – c’erano gli eredi della sinistra risorgimentale che invece criticavano in blocco l’unificazione perché – sostenevano – aveva coinciso in sostanza con la «conquista piemontese» del resto d’Italia ed identificavano perciò il vero Risorgimento, l’unico che meritasse d’essere celebrato, nell’azione di Garibaldi e deidemocratici.
    – C’erano infine quanti, su posizioni cattoliche intransigenti, condannavano il Risorgimento perché aveva sottratto al papa i suoi territori rendendolo sostanzialmente prigioniero del nuovo Stato italiano.

I primi studi storici sul Risorgimento risentivano in modo evidente di queste divisioni e spesso riproponevano le posizioni che erano state proprie delle varie correnti politiche nei decenni precedenti il 1860.
Così, per citare due testi significativi di questa prima stagione di studi,
– il monarchico Nicomede Bianchi improntava la sua Storia della monarchia piemontese dal 1773 al 1861 (1877-1885) a una acritica esaltazione della monarchia sabauda;
– mentre la Storia d’Italia dal 1814 al 1863 (1863-64) del democratico Luigi Anelli considerava negativamente il ruolo svolto dal Piemonte nell’ultima fase

  • Tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo prendeva forma nella cultura del paese una visione cosiddetta «conciliatorista» che mirava a smussare i contrasti esistiti tra le diverse componenti del movimento per l’indipendenza (anzitutto tra monarchici e democratici), poiché tutte avevano concorso al risultato finale.

Due opere particolarmente rappresentative di questo indirizzo furono le Letture del Risorgimento italiano 1749-1870, scelte e ordinate da Giosuè Carducci (1896), e la Storia critica del Risorgimento italiano di Carlo Tivaroni (1887-97), il quale concludeva il nono e ultimo volume dell’opera osservando appunto che «la prudenza di Cavour e di Vittorio Emanuele giovava come la costanza di Mazzini e l’audacia di Garibaldi». Fu sulla base di simili giudizi che negli anni seguenti l’Italia monarchica riconobbe anche il repubblicano Mazzini come uno dei padri della patria e che si andarono diffondendo le stampe popolari raffiguranti i «quattro grandi» del Risorgimento tranquillamente a braccetto.

L’affermarsi, soprattutto a livello dell’Italia ufficiale, della visione «conciliatorista» non impediva che nel paese sopravvivesse un conflitto tra memorie diverse, volto a riproporre e riutilizzare nella lotta politica i contrasti del periodo risorgimentale. In particolare, il conflitto tra opposte memorie si manifestava in occasione di qualche anniversario da celebrare, dando luogo alla pratica delle due differenti manifestazioni: a quella ufficiale, con la partecipazione dei rappresentanti delle istituzioni, si contrapponeva quella della Sinistra (con la presenza dei democratici e dei mazziniani, e da un certo punto in poi anche da socialisti) che celebrava un suo Risorgimento alternativo, considerato come una rivoluzione che, interrotta da Cavour e dal re nel 1860, occorreva riprendere per costruire una Italia veramente democratica e popolare. Non era infrequente che queste manifestazioni dessero adito a incidenti e all’intervento della polizia. Così avvenne a Milano nel 1909, in occasione del cinquantenario della seconda guerra d’indipendenza, quando alcuni socialisti, passando davanti al monumento a Vittorio Emanuele II, capovolsero le loro bandiere rosse esibendone in segno di disprezzo soltanto l’asta.

  • I primi anni del Novecento,  che precedettero la prima guerra mondiale videro un moltiplicarsi di studi storiografici, favorito anche dalla scomparsa della generazione che aveva partecipato alle lotte risorgimentali e aveva poi guardato a quegli avvenimenti in modo spesso retorico e apologetico.

Gaetano Salvemini

Uno dei protagonisti di questa nuova stagione fu Gaetano Salvemini, autore di un libretto su I partiti politici milanesi nel secolo XIX (1899), duro atto d’accusa contro il «moderatume» lombardo ma anche «primo esempio d’una indagine sulla composizione sociale dei partiti politici italiani» (W. Maturi). Pochi anni dopo, Salvemini pubblicò uno studio su Il pensiero religioso, politico e sociale di Giuseppe Mazzini (1905), poi riedito molte volte, che rappresentò uno dei primi testi sul fondatore della Giovine Italia che uscisse dal genere agiografico.

Di una biografia di Mazzini, ma anche di una Storia dell’unità italiana (1899; ediz. ital. 1909-10), fu autore l’inglese Bolton King, da ricordare anche come rappresentante di quel particolare interesse della storiografia inglese sull’Italia che sarebbe proseguito a lungo, trovando in anni più vicini a noi il suo maggior rappresentante in Denis Mack Smith.
Con una differenza importante, però: che mentre Bolton King era animato da una evidente simpatia per le vicende che avevano portato alla costruzione dello Stato nazionale italiano, Mack Smith avrebbe ispirato le sue opere – anzitutto la Storia d’Italia dal 1861 al 1958 (1959) – ad una generale condanna del processo risorgimentale, visto come l’origine dei tanti mali della successiva storia italiana a cominciare dal fascismo.

In un periodo caratterizzato da una notevole crescita degli studi, si pubblicarono ricerche importanti su Cavour (soprattutto F. Ruffini, La giovinezza del conte di Cavour, 1912) e su altri protagonisti del Risorgimento; si pubblicarono studi sulle riforme settecentesche; si tentarono prime ricostruzioni d’assieme. Nel campo della pubblicazione delle fonti sono da ricordare, per un verso, la comparsa dei primi volumi dell’opera omnia di Mazzini, per l’altro le ricerche condotte negli archivi di Vienna da Alessandro Luzio, i cui libri rappresentarono quasi una rivoluzione nel campo degli studi poiché per la prima volta ci si basava su documenti provenienti dai nemici dell’indipendenza italiana.

Alfredo Oriani

Un’importanza non solo storiografica ebbe la ripubblicazione del libro che uno scrittore romagnolo non storico di professione, Alfredo Oriani, aveva fatto stampare nel 1892, ma che era rimasto allora totalmente ignorato: La lotta politica in Italia: origini della lotta attuale, 476-1887. A determinare il successo dell’opera fu soprattutto l’attenzione che ad essa dedicò Benedetto Croce, con un articolo sulla sua rivista «La Critica» nel 1909 in cui ne elogiava, in polemica con la storiografia erudita, la capacità di guardare i fatti storici dall’alto, di avere una visione d’insieme. L’idea di fondo del libro – quella che la storia italiana fosse percorsa dal contrasto fra tradizioni federaliste e tendenza all’unificazione statale – non era originale: Oriani la riprendeva da un volume di Giuseppe Ferrari.

Ma il successo del libro (riedito nel 1913 dalle edizioni della «Voce») dipese molto dal fatto che l’autore mescolava il richiamo a temi propri della democrazia risorgimentale con quelle aspirazioni alla potenza nazionale che apparivano caratteristiche dei tempi nuovi (la conquista italiana della Libia avvenne nel 1911-12).

Documenti

  • Gaetano Salvemini  Nell’unica sua opera di sintesi dedicata al Risorgimento – L’Italia politica nel secolo XIX (1925) – Salvemini spiegava tra l’altro come dopo il 1860 la scelta a favore dell’accentramento amministrativo fosse inevitabile a causa della debolezza del «partito nazionale» nel Mezzogiorno. Contemporaneamente riproponeva la sua convinzione che la storia è sempre fatta dalle minoranze «consapevoli ed attive», capaci di vincere le «inerzie delle moltitudini». G. Salvemini, Scritti sul Risorgimento, a cura di P. Pieri e C. Pischedda, Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 432-435.
  • Alfredo Oriani  In un suo corso universitario degli anni Cinquanta del Novecento, lo storico Walter Maturi esaminava criticamente il valore storiografico della Lotta politica in Italia di Oriani. W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1962, pp. 393-399.

2. Tra le due guerre  (1914-1945)

  • A partire dal 1915 la guerra venne salutata (e in larga misura giustificata) come compimento del Risorgimento, come quarta guerra d’indipendenza appunto, volta a conquistare territori italiani ancora soggetti all’Austria-Ungheria.

Per di più, nella sua ultima fase il conflitto assunse almeno ufficialmente il carattere, da parte dell’Intesa, di una guerra che puntava all’indipendenza delle nazionalità oppresse dall’Impero asburgico (ma anche da quello zarista): da ciò, in Italia, i richiami continui al pensiero di Giuseppe Mazzini, che nel secolo precedente era stato forse il massimo profeta di un’Europa composta di liberi Stati nazionali. Intervenendo in Senato il 20 novembre 1918, dunque quando il conflitto era da poco terminato, il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, affermò: «Trionfa, dovunque, il principio di nazionalità, che fu la più pura asserzione dello spirito democratico, e trovò un apostolo in una gloria democratica e italiana, Giuseppe Mazzini (Applausi)».

  • Dopo la conquista del potere da parte di Mussolini l’uso politico del Risorgimento divenne particolarmente intenso sugli opposti fronti del fascismo e dell’antifascismo.

– Il fascismo si presentò spesso come erede del Risorgimento, sia pure di un Risorgimento letto in chiave antiliberale:

Giovanni Gentile

Introducendo una raccolta di Scritti politici di Cavour, il filosofo Giovanni Gentile sostenne che la prassi del primo ministro Cavour era stata nettamente superiore alla sua teoria politica, incentrata su un individualismo liberale di matrice anglo-francese.

– — Contemporaneamente, altri esponenti del regime attribuirono al fascismo il merito di aver portato le grandi masse nello Stato, e dunque d’essere per questo erede dei democratici che la soluzione monarchico-liberale del 1860 aveva visto sconfitti.

Altri fascisti ancora ritenevano invece che la vittoria del loro movimento rappresentasse una netta cesura con l’Italia liberale e dunque anche con l’eredità del Risorgimento.

  • Molteplici, e di segno diverso, furono anche i richiami al Risorgimento tra gli oppositori di Mussolini, soprattutto da parte di esponenti dell’antifascismo liberale e democratico.

– Vi fu chi accusò il fascismo d’essere «antirisorgimento» avendo abbattuto il regime politico nato nel 1861.
– Altri antifascisti – interrogandosi sui motivi della vittoria mussoliniana – giungevano invece alla conclusione che il fascismo rappresentasse la «rivelazione» di mali antichi della storia d’Italia, che dipendevano dal modo stesso in cui lo Stato nazionale si era costituito.

Piero Gobetti e Carlo Rosselli furono tra i più noti critici in chiave antifascista della tradizione risorgimentale. L’uno e l’altro riproponevano l’idea – che era stata di Mazzini e poi di Oriani – del Risorgimento come rivoluzione fallita:
secondo quel che Gobetti scriveva nel 1921, il Risorgimento non aveva saputo «costruire un’unità che fosse di popolo» e, di conseguenza, «la conquista dell’indipendenza non [era] stata sentita tanto da diventare vita intima della nazione stessa».
Scriveva Rosselli quasi quindici anni dopo che il Risorgimento «ufficiale, scolastico, piemontese» andava di sicuro criticato, mentre andava riscoperto il Risorgimento «popolare» e «rivoluzionario» al quale l’antifascismo si doveva ricollegare idealmente.

  •  Una forte politicizzazione caratterizzò anche i lavori propriamente storici.

– Guido De Ruggiero – gentiliano di formazione, ma antifascista di idee politiche – nella sua celebre Storia del liberalismo europeo (1925) sottolineava i limiti della penetrazione delle idee liberali in Italia al tempo del Risorgimento, ciò avveniva anche perché si era trovato ad assistere al crollo dello Stato liberale nato nel 1861.
– Nello Rosselli scrisse una ottima biografia di Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano (1932), anche per il suo vivo interesse nei confronti del filone democratico e in senso lato socialista del Risorgimento, un interesse che era indubbiamente collegato al suo antifascismo.

  • La maggioranza degli studi fu caratterizzata in quegli anni da un nazionalismo storiografico incentrato su un’interpretazione «italocentrica», che tendeva a retrodatare all’epoca del riformismo settecentesco le origini del Risorgimento così da ridurre o annullare l’influenza della Rivoluzione francese come fattore decisivo di impulso.

Fu una tendenza che contagiò storici di sicuro valore, come ad esempio il giovane Carlo Morandi che, in un volume su Idee e formazioni politiche in Lombardia dal 1748 al 1814 (1927), spostava appunto il centro di gravità del Risorgimento nel XVIII secolo dal momento che «anticipava di molti decenni la spinta lombarda all’unificazione nazionale e forzava in senso autoctono la matrice dell’illuminismo», sottolineandone l’indipendenza rispetto alle correnti d’Oltralpe (S. Soldani).
Su questa via, alcuni studiosi giudicarono negativamente l’influsso della Rivoluzione francese che avrebbe semplicemente interrotto un movimento nazionale italiano sorto autonomamente.
Altrettanto «italocentrica» era un’altra corrente storiografica che prosperò negli anni del fascismo, tesa ad enfatizzare anche qui le origini settecentesche del Risorgimento legandole soprattutto alla politica di casa Savoia, che per questa via diventava protagonista assoluta e quasi unica del processo di unificazione.

A testimoniare come il panorama storiografico e culturale dell’Italia fascista non fosse comunque monolitico, sta il fatto che fu Gioacchino Volpe, storico di simpatie fasciste egli stesso, a polemizzare con questa interpretazione ribadendo che l’unità italiana era stata il frutto di un incontro tra la monarchia piemontese e gli orientamenti del popolo italiano, quali erano all’epoca rappresentati dalle sue élites sia liberali che democratiche.

Una difesa del Risorgimento e della tradizione liberale che il fascismo aveva distrutto animò negli anni tra le due guerre sia la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928) sia la Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932) di Benedetto Croce.

Analoga la posizione di uno storico che fu all’epoca stretto collaboratore di Croce, Adolfo Omodeo, autore tra l’altro di un volume di sintesi su L’età del Risorgimento italiano (1931) e di un importante studio in due volumi dedicato a L’opera politica del conte di Cavour (1940).

Documenti

  • Giovanni Gentile Tra gli intellettuali che aderirono al regime mussoliniano, il filosofo Giovanni Gentile fu forse quello che più sostenne l’esistenza di un rapporto tra il fascismo e la tradizione del Risorgimento. Ma il Risorgimento da lui richiamato – come spiegava in un articolo del 1931 – aveva posto al centro non la libertà dell’individuo ma quella dello Stato. G. Gentile, Politica e cultura, II, a cura di H. A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, 1991, pp. 111-116.

Piero Gobetti

  • Piero Gobetti In un articolo del 1921, ripubblicato in Risorgimento senza eroi (1926), il giovane intellettuale torinese Piero Gobetti sottolineava i limiti del Risorgimento, tra i quali la mancata costruzione di un’unità che fosse «unità di popolo» e un liberalismo che in Italia aveva fatto tutt’uno con l’indirizzo cattolico-moderato. L’inclinazione di Gobetti al paradosso ma anche la confusione che caratterizzava il suo liberalismo sono ben testimoniate dal giudizio secondo cui Marx e Mazzini sarebbero stati «i più grandi liberali del mondo moderno». P. Gobetti, Risorgimento senza eroi e altri scritti storici, Torino, Einaudi, 1976, pp. 145-152.
  • Gioacchino Volpe Nella sua Italia in cammino (1927), Gioacchino Volpe – uno dei maggiori storici italiani del secolo scorso, che politicamente aveva aderito al fascismo – dedicava le pagine iniziali a un rapido affresco del processo che aveva portato all’unificazione italiana. Molto efficace, in particolare, la descrizione della composita minoranza che era stata protagonista del Risorgimento. G. Volpe, Italia in cammino, a cura di G. Belardelli, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 28-32.
  • Benedetto Croce Nella sua celebre Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932) il filosofo e storico Benedetto Croce sottolineava la forte differenza tra la formazione del Regno d’Italia e quella dello Stato tedesco nel 1870. Mentre il primo, grazie a Cavour, era nato sotto il segno della libertà, il secondo si era formato, grazie a Bismarck, seguendo il criterio autoritario della forza. B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza, Bari, 1972, pp. 217-223.
  • Adolfo Omodeo In un volumetto dedicato a La leggenda di Carlo Alberto nella recente storiografia (1940) Omodeo si dedicò, con indubbia verve polemica, a smantellare un filone storiografico che in quegli anni andava rivalutando, con più o meno evidenti finalità apologetiche, l’opera di Carlo Alberto anteriormente al 1848. A. Omodeo, La leggenda di Carlo Alberto nella recente storiografia, Torino, Einaudi, 1940, pp. 9-17.
  • Luigi Salvatorelli  Pensiero e azione del Risorgimento di Salvatorelli usciva nel 1943, dunque dopo anni in cui aveva imperversato una storiografia che considerava il Piemonte come protagonista unico o quasi del Risorgimento. Nel libro, dunque, l‘autore polemizzava contro il filone di studi che aveva dato spazio al «mito sabaudo».  L. Salvatorelli, Pensiero e azione del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1998, pp. 37-40.
  • Si deve probabilmente al leader comunista Palmiro Togliatti  una delle più accentuate utilizzazioni politiche del Risorgimento. Durante la seconda guerra mondiale e poi nei primi anni del dopoguerra Togliatti si richiamò più volte al Risorgimento in modo positivo, al fine di attribuire caratteri e radici nazionali a un partito come il suo, profondamente legato a Mosca.
    Ma qualche anno prima, nel quadro della polemica contro Giustizia e Libertà (il movimento antifascista fondato da Carlo Rosselli) aveva invece scritto parole di fuoco contro il Risorgimento e in particolare contro Mazzini, considerato come un precursore del fascismoLo Stato operaio 1927-1939, antologia a cura di F. Ferri, Roma, Editori Riuniti, 1964, I, pp. 472-473.

3. Dal 1945 ad oggi

«L’Italia come grande Stato nazionale ereditato dal Risorgimento è stata distrutta», osservava Ugo La Malfa nel dicembre 1943, a poca distanza dai drammatici avvenimenti che a ridosso dell’8 settembre  avevano segnato il crollo della compagine statale nata nel 1860.

  • Nel 1946 la nuova Italia repubblicana,
    per un verso realizzava
    l’antico auspicio di Giuseppe Mazzini,
    per l’altro nasceva da una evidente cesura
    rispetto alla tradizione del Risorgimento.

– La stessa appropriazione/distorsione (?) che il fascismo aveva fatto per vent’anni dell’eredità risorgimentale, separando l’idea di patria da quella di libertà (?) rendeva ora difficile richiamarsi a quella eredità.
– Inoltre i principali partiti dell’Italia democratica (anzitutto la Democrazia cristiana e il Partito comunista italiano) erano sostanzialmente estranei alla tradizione del Risorgimento.
– Infine, con la sconfitta della monarchia nel referendum istituzionale del 1946, era scomparso uno dei soggetti cardine di cui fin allora la continuità con il Risorgimento si era alimentata.

  • Negli anni del dopoguerra gli studi storici furono largamente influenzati dall’interpretazione del Risorgimento che l’intellettuale e leader comunista Antonio Gramsci aveva consegnato ai suoi Quaderni del carcere: si trattava di appunti che, redatti tra gli anni Venti e Trenta, vennero pubblicati soltanto nel 1949 in un volume su Il Risorgimento.

Antonio Gramsci

Al centro della riflessione di Gramsci stava il tema dell’egemonia che i liberali cavouriani (i «moderati», come li definiva Gramsci) avevano saputo esercitare sui democratici, nonché l’esame delle ragioni del successo dei primi e della sconfitta dei secondi.

Mazzini e i democratici erano stati sconfitti, secondo Gramsci, perché non erano stati capaci di attuare una politica fondata sulla distribuzione delle terre ai contadini: la sola politica che avrebbe potuto consentire al Partito d’azione di averne l’appoggio dando così un diverso sbocco alla rivoluzione italiana.

Nella realtà del dopoguerra, caratterizzata da un’ampia influenza del Partito comunista nella cultura italiana, le tesi di Gramsci ebbero un grandissimo successo, alimentando una serie di ricerche rivolte anzitutto a studiare le componenti democratiche del Risorgimento e le strutture economico-sociali del paese. Legata alle simpatie politiche di sinistra coltivate da tanti storici (soprattutto appartenenti alle nuove generazioni di studiosi) fu anche la particolare attenzione rivolta a Filippo Buonarroti e in generale alle componenti in senso lato «socialiste» del Risorgimento.

Allora e per molti anni la storiografia gramsciana produsse ottimi lavori sul piano dell’ampliamento delle conoscenze: si pensi agli studi di uno dei maggiori risorgimentisti dell’Italia repubblicana, Franco Della Peruta, o anche alla fondamentale Storia dell’Italia moderna di Giorgio Candeloro, il cui primo volume uscì nel 1956 con una prefazione che si richiamava esplicitamente alle tesi di Gramsci.

  • Tuttavia l’interpretazione gramsciana del Risorgimento fu sottoposta a una critica serrata da parte di un giovane storico liberale, Rosario Romeo. 

In due saggi presto raccolti in volume (Risorgimento e capitalismo, 1959) Romeo
– dimostrava in modo puntuale come al momento dell’unificazione non esistessero in Italia le condizioni per una rivoluzione agraria.
– Sosteneva inoltre come l’eventuale diffondersi, in conseguenza di una riforma agraria, della piccola proprietà contadina avrebbe danneggiato lo sviluppo del capitalismo industriale; nelle condizioni dell’Italia del tempo, infatti, l’«accumulazione originaria» che costituiva un prerequisito dell’industrializzazione poteva avvenire soltanto al prezzo di una compressione dei consumi contadini.

L’interpretazione gramsciana del Risorgimento avrebbe però avuto fortuna ancora per molto tempo, anche se non poté mai riprendersi del tutto dalla critica formulata allora da Romeo.

  • A partire dagli anni sessanta, la «grande modernizzazione» legata al cosiddetto miracolo economico stava iniziando a cambiare radicalmente anche il panorama culturale del paese, imponendo un lessico e dei valori tutti improntati al progresso, alla modernità, al futuro. L’eredità del Risorgimento tendeva a farsi sempre più sfocata, debole, incerta.

Anche nell’ambito specificamente storiografico l’interesse per le vicende del Risorgimento andava esaurendosi.
Gli studi su quel periodo rimasero soprattutto oggetto dei lavori di un limitato numero di specialisti, raccolti attorno ad alcune riviste (in primis la «Rassegna storica del Risorgimento», fondata nel 1914 e ancora oggi esistente), all’Istituto per la storia del Risorgimento italiano e a qualche altra istituzione.

  • Una nuova attenzione per l’età del Risorgimento si è avuta tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, con l’affacciarsi di correnti politiche e culturali che rivendicavano un’estraneità nei confronti del processo che aveva dato vita, nel 1860, all’Italia unita.

Oltre alle polemiche antiromane (e implicitamente antirisorgimentali) della Lega, ripresero vigore tutta una serie di motivi critici che avevano circolato, in realtà, già a partire dagli anni immediatamente successivi dell’unificazione:
– anzitutto l’idea che l’unificazione avesse coinciso con una conquista piemontese del Sud, impedendo così lo sviluppo del Mezzogiorno d’Italia. Si ripercorsero anche – magari con l’idea di raccontare per la prima volta cose note in realtà da decenni – certe pagine drammatiche dell’unificazione, come la repressione sanguinosa del brigantaggio. Oppure si rievocò lo scontro drammatico tra il nuovo Regno d’Italia e la Chiesa cattolica, non andando però oltre la riproposizione – così Angela Pellicciari in Risorgimento da riscrivere (1998) – di ciò che era stato scritto all’epoca dalla «Civiltà cattolica».

  • Fu anche per reazione a questi filoni, minoritari ma non irrilevanti, di opinione antirisorgimentale che il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e poi il suo successore Giorgio Napolitano si sono impegnati a riproporre continuamente simboli, momenti e figure del Risorgimento, all’interno di un nuovo discorso patriottico la cui effettiva presa sulla maggioranza degli italiani resta tuttavia incerta.

Negli ultimi anni molti studi si sono dedicati proprio ai simboli, alle rappresentazioni, ai miti del Risorgimento e alle loro alterne fortune nel corso del tempo.
Un prodotto della tendenza ad abbandonare i più tradizionali argomenti e approcci della storia politica o economica è anche il libro di Alberto M. BantiLa nazione del Risorgimento (2000), che analizza la cultura delle élites patriottiche a partire da un insieme di testi, letterari più che politici, attraverso i quali prese corpo il discorso nazionale. Di questo nuovo approccio «culturalista», che ha forse il limite di ridurre la storia del Risorgimento alla dimensione spesso sfuggente dei simboli, delle emozioni, delle rappresentazioni di vario genere, sono un prodotto i saggi raccolti nel recente volume degli «Annali» Einaudi dedicato a Il Risorgimento, a cura dello stesso Banti e di Paul Ginsborg (2007).

Documenti

  • Antonio Gramsci Nel Risorgimento, secondo Gramsci, i «democratici» erano stati sconfitti dai «moderati» soprattutto per la loro incapacità di affrontare la questione agraria, così da ottenere l’appoggio delle masse contadine. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, III, Torino, Einaudi, 1975, pp. 2044-2046.
  • Rosario Romeo In un saggio pubblicato originariamente nel 1956, Romeo, dopo aver sostenuto che una rivoluzione agraria nell’Italia del 1860 era del tutto improbabile, mostrava come sarebbe stata in ogni caso non augurabile. Avrebbe infatti provocato un rallentamento dello sviluppo economico delle campagne e danneggiato lo stesso sviluppo industriale. R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 25-39.
  • Giorgio Candeloro Della Storia dell’Italia moderna di Candeloro, fino ad oggi la più completa storia d’assieme sul nostro paese che sia stata scritta, riproduciamo la prefazione al primo volume, del 1956, in cui l’autore dichiarava il suo debito nei confronti dell’interpretazione gramsciana del Risorgimento. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, I, Le origini del Risorgimento 1700-1815, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 5-8.
  • Franco Della Peruta Nelle molte opere che Della Peruta ha dedicato ai democratici del Risorgimento il richiamo all’interpretazione gramsciana ha saputo coniugarsi con un’attenzione ai testi e una ricerca d’archivio che rendono ancora oggi indispensabili volumi come I democratici e la rivoluzione italiana del 1958. Di quest’opera si riproducono le pagine dedicate al «socialismo risorgimentale» di Carlo Pisacane. F. Della Peruta, I democratici e la rivoluzione italiana. Dibattiti ideali e contrasti politici all’indomani del 1848, Milano, F. Angeli, 2004, pp. 87-100.
  • Alberto M. Banti La forza comunicativa e la capacità di diffusione del discorso nazionale, sostiene Banti, dipesero dal fatto che esso riproduceva come un «calco» tematiche, figure, simboli, ripresi da ambiti discorsivi differenti ma familiari, a cominciare dal discorso religioso. A. M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2000, pp. 107-111, 123-128.

Un pensiero su “Interpretazioni del Risorgimento

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