Redzepi: Appunti per una lezione sull’esistenzialismo e Sartre

Giacometti

di Anita Redzepi, VBSU, Ist. Degasperi, Borgo V.

L’ESISTENZIALISMO

“Insieme di autori e di filosofie che, a partire soprattutto dagli anni Trenta del Novecento, sull’onda della riscoperta di Kierkegaard, hanno insistito sull’insensatezza, l’assurdo, il vuoto che caratterizzano la condizione dell’uomo moderno e sulla «solitudine di fronte alla morte» in un mondo che, sia come ambiente naturale sia come società e realtà storica, è diventato a lui completamente estraneo o addirittura ostile.” (Enciclopedia Treccani- Dizionario filosofico)

Le radici storico-filosofiche 

L’esistenzialismo è stato il clima dominante degli anni immediatamente seguenti alla seconda guerra mondiale e si è presentato, in primo luogo, come la crisi dell’ottimismo romantico, fondato sulla garanzia che un Principio infinito o una Ragione assoluta avrebbe offerto all’ordine perfetto del mondo e al progresso infallibile della storia. Contro l’esaltazione romantica dell’uomo e della sua storia come manifestazione e realizzazione compiuta di una Ragione onnipotente o di altra onnipotente e perfetta Realtà, l’esistenzialismo ha insistito sui caratteri negativi dell’esistenza umana nel mondo, sul suo disordine e la sua casualità, sull’anonimato e l’alienazione in cui essa può cadere e cade di continuo, sui rischi di ogni genere che la minacciano e sulla sua ineliminabile fragilità. Nelle sue analisi l’esistenzialismo si è perciò rifatto di preferenza a pensatori che nell’Ottocento erano rimasti isolati e soprattutto a Kierkegaard e a Nietzsche.
Kierkegaard era stato un critico radicale del razionalismo romantico: all’universalità della ragione infinita aveva contrapposto la singolarità dell’esistenza finita e alla ‛necessità’ del processo dialettico, nel quale la ragione si realizza, aveva contrapposto le possibilità alternative fra le quali l’esistenza ad ogni istante si trova a scegliere.

Noi siamo costantemente portati a scegliere, senza dei mezzi che ce lo permettano, e ciò determina l’‛angoscia’ per ciò che riguarda il rapporto dell’uomo con il mondo e la ‛disperazione’ nel rapporto dell’uomo con se stesso. Dalla minaccia del possibile così inteso, l’uomo può salvarsi, secondo Kierkegaard, con un ‛salto’ nella fede religiosa cioè affidandosi a Dio al quale ‟tutto è possibile”. Tuttavia la fede non è tra le possibilità umane, ma è la possibilità conferita all’uomo direttamente da Dio mediante la grazia.
Dall’altro lato, Nietzsche aveva insistito anch’egli sul carattere individuale e singolo dell’esistenza, gettata tuttavia in un mondo dominato dal caso; e aveva tentato di rintracciare la via verso un’esistenza più alta e più piena, che si fondi su una totale e gioiosa accettazione di sé e che offra all’uomo le possibilità nuove annunciate da Zarathustra.

L’ateismo di Nietzsche e il teismo di Kierkegaard hanno costituito i due assi principali intorno a cui ha ruotato l’esistenzialismo contemporaneo. Ha scritto Jaspers a questo proposito: ‟Kierkegaard e Nietzsche fanno entrambi un salto nella trascendenza, ma in una trascendenza in cui, in verità, nessuno può seguirli: Kierkegaard nel cristianesimo concepito come assurdo paradosso, con la conclusione negativa della totale rinuncia al mondo e come un martirio necessario, Nietzsche con l’intuizione dell’eterno ritorno e del superuomo”. Con la sua dottrina dell’eterno ritorno, cioè della ripetizione infinita dell’identico ciclo del mondo, si collega anche quella dell’amor fati o del ‛destino’: inteso come accettazione appassionata, da parte dell’oltreuomo, della necessità del ritorno. E anche questo concetto del destino è stato più volte ripreso dall’esistenzialismo contemporaneo.
Infine Kierkegaard e Nietzsche hanno fornito all’esistenzialismo un’altra arma contro il razionalismo romantico dell’Ottocento e del primo Novecento, con un ridimensionamento del concetto di ‛ragione’. La ragione non è per esso la sostanza della realtà, il principio che la domina e la sorregge in tutte le sue articolazioni e in tutti i suoi sviluppi, è soltanto uno strumento di cui l’esistenza si avvale per interpretarsi, per chiarirsi nelle sue possibilità, e nei suoi limiti, per proiettarsi in avanti.

Ma è impossibile comprendere lo sviluppo delle tematiche esistenzialistiche, la loro diffusione di massa nel XX sec. in Europa, e specialmente in Germania e in Francia, senza tener conto di un’ulteriore premessa storica: l’insieme di veri e propri cataclismi – guerre mondiali, rivoluzioni, avvento di regimi totalitari, l’Olocausto e altri genocidi – che hanno segnato la storia del Novecento, travolgendo la vita di decine di milioni di individui. Queste esperienze resero la problematica della vita e della morte, della loro fragilità e casualità un dato di esperienza quotidiana e di massa, così come portarono allo scoperto un magma di violenza, di caos e irrazionalità nella storia. 

Temi

Finitudine umana e dati che la caratterizzano (“situazioni-limite”, Jaspers): nascita, lotta sofferenza, passare del tempo, morte.

  • Riflessione sull’esistenza come modo d’essere proprio dell’uomo (“l’esistenza precede l’essenza” );
  • Il rapporto con l’essere (con le cose, con gli altri uomini, col mondo, con Dio), costitutivo dell’esistenza, non è mediato e oggettivo, ma ‛immediato’ o ‛immediatamente’ vissuto; e comprende non solo l’aspetto intellettuale o conoscitivo ma anche quello emotivo e pratico. I filosofi esistenzialisti trascurano la distinzione tradizionale tra conoscenza, sentimento e attività pratica: ritengono che tutte queste attività sono indistinguibilmente fuse in ogni tipo o forma di rapporto che l’esistente può avere con gli altri enti;
  • Il rapporto esistenziale con l’essere richiede da parte dell’uomo una qualche scelta, ovvero un progetto aperto al rischio. Gli esistenzialisti ritengono infatti che l’essere umano sia un ente che si trova di fronte a infinite possibilità di realizzazione, le quali interpellano la sua libertà;
  • L’esistenza è sempre individuata, concreta, singola e irripetibile, anche se può decadere ad esistenza ‛anonima’. Ciò vuol dire che l’esistenza non può essere ridotta a elementi o concetti universali o razionali né identificarsi con la ragione intesa come attività impersonale o processo dialettico. In tal senso si suol dire che per l’esistenzialismo l’esistenza ‛precede’ l’essenza: cioè che solo a partire dall’individualità concreta si può intendere la formazione e la funzione di procedure, concetti o progetti a carattere universale. Ma questo stesso carattere universale non consiste in altro che nella possibilità della comunicazione tra un’esistenza e l’altra;
  • Come rapporto con l’Essere, l’esistenza è una ‛possibilità di essere’, o un insieme di possibilità, che possono realizzarsi o meno. L’esistenza non è una realtà sostanziale che ha o possiede certe possibilità, ma è le sue possibilità stesse. Perciò, anche, è la scelta fra tali possibilità e il progettarsi sul fondamento di esse. In questa scelta e progettazione consiste la libertà

In sintesi, l’esistenzialismo filosofico è un concetto storiografico che serve a indicare tutte quelle forme di pensiero che, nel contesto storico e culturale che va dagli anni Venti agli anni Quaranta del Novecento, si sono trovate a condividere la concezione dell’esistenza come modo d’essere proprio dell’uomo, qualificato da alcune prerogative di base, a cominciare dal rapporto con l’essere; in relazione a tale modo d’essere l’individuo, nella sua singolarità finita e irripetibile, cioè situata nell’ambito di una determinata condizione storico-temporale compresa tra la sua nascita e la sua morte, è chiamato a decidere, in vista della propria autenticità e realizzazione.

“Prima che voi viviate, la vita non è nulla, ma sta a voi darle un senso, e il valore non è altro che il senso che scegliete” (Sartre, pagg. 88-89, “L’esistenzialismo è un umanismo”, 1946)

JEAN-PAUL SARTRE

Tutte le correnti dell’esistenzialismo insistono sulla ‛finitudine’ dell’esistenza, finitudine che le è inerente in quanto essa non è l’essere nella sua stabilità e necessità, ma possibilità di essere, quindi indeterminazione, problematicità e rischio. Sul conto della finitudine sono stati messi tutti gli aspetti negativi dell’esistenza, le sue imperfezioni, i suoi limiti; e l’insistenza su questi aspetti negativi, destinata a smontare l’ottimismo del razionalismo romantico, ha costituito l’aspetto più popolare dell’esistenzialismo contemporaneo. L’interpretazione dell’esistenza in termini di possibilità toglie infatti all’esistenza stessa la garanzia sicura della riuscita; e, a meno non la si agganci a una realtà stabile e sicura, la lascia in balia della dispersione e del caso. L’angoscia, la colpa, la cattiva coscienza, la nausea, l’assurdo diventano allora i modi della sua rivelazione privilegiata: cioè le esperienze in cui essa manifesta se stessa, nel suo fondo di incertezza o nel suo abisso di nullità.
Già Kierkegaard aveva visto nell’angoscia ‟il sentimento del possibile” il quale, per la sua infinità e indeterminatezza, rende l’angoscia insuperabile e ne fa la situazione fondamentale dell’uomo nel mondo. Poiché ‟nel possibile, tutto è possibile”, ogni possibilità favorevole all’uomo è annientata dal numero infinito delle possibilità sfavorevoli che incombono su di lui come una minaccia incessante. Mentre la paura è prodotta dall’imminenza di un pericolo previsto o prevedibile, l’angoscia è connessa necessariamente con l’esistenza, cioè con le possibilità che la costituiscono. Ma se Kierkegaard scorgeva la salvezza dall’angoscia nella fede religiosa per la quale l’uomo trova in Dio l’ancoraggio sicuro delle sue possibilità, per Sartre, l’angoscia è la consapevolezza, talora nascosta o camuffata, della responsabilità totale dell’uomo che, progettando la propria esistenza, progetta anche quella degli altri e l’intera natura del mondo:

“Quando diciamo che l’uomo si sceglie intendiamo dire che ciascuno di noi si sceglie,

ma, con questo, vogliamo anche dire che ciascuno di noi, scegliendosi, sceglie per tutti gli uomini. Infatti non c’è uno dei nostri atti che, creando l’uomo che vogliamo essere, non crei nello stesso tempo una immagine dell’uomo come noi crediamo debba essere. Scegliere d’essere questo piuttosto che quello è affermare nello stesso tempo, il valore della nostra scelta, giacchè non possiamo mai scegliere il male; ciò che scegliamo è sempre il bene e nulla può essere bene per noi senza esserlo per tutti. […] Così la nostra responsabilità è molto più grande di quello che potremmo supporre, poiché essa obbliga l’umanità intera. […] Così sono responsabile per me stesso e per tutti creo una certa immagine dell’uomo che scelgo; scegliendomi, io scelgo l’uomo.” (pgg. 37-39 “L’esistenzialismo è un umanismo” 1946)

Scelta-libertà-agire

Interpretando l’esistenza in termini di possibilità, l’esistenzialismo l’interpreta anche in termini di scelta. I concetti di possibilità e di scelta sono infatti strettamente congiunti. Una possibilità è tale perché si offre alla scelta; una scelta può effettuarsi solo sulla base di possibilità alternative. ‛Trascendenza’, ‛progettazione’, ‛libertà’ sono per l’esistenzialismo termini equivalenti che designano l’atto fondamentale dell’esistenza che è per l’appunto quello della scelta.

“Ogni cosa accade come se, per ogni singolo uomo, tutta l’umanità avesse gli occhi fissi su ciò che egli fa e si regolasse su ciò che egli fa. Ed ogni uomo deve dirsi: sono io davvero colui che ha il diritto di operare in modo tale che l’umanità si regoli sui miei atti? E, se non se lo dice, è perché maschera la propria angoscia.

Non si tratta qui di un’angoscia che condurrebbe al quietismo, all’inazione. Si tratta di un’angoscia semplice, che tutti coloro che hanno delle responsabilità conoscono bene.

Quando, ad esempio, un capo militare si assume la responsabilità di un assalto e manda un certo numero di uomini alla morte, egli sceglie di far ciò e, in sostanza, sceglie da solo. Senza dubbio vi sono ordini che vengono dall’alto, ma essi sono troppo indeterminati ed è necessaria una interpretazione, la quale viene da lui, e, da questa interpretazione, dipende la vita di dieci, o quattordici, o venti uomini. Egli non può non avere nella decisione che prende, una certa angoscia. Tutti i capi conoscono questa angoscia.

Essa non impedisce loro di agire; al contrario, è la condizione stessa della loro azione, poiché ciò presuppone che essi esaminino attentamente molti casi possibili e, quando ne scelgono uno,, si rendano conto che esso non ha valore se non in quanto è stata scelto.

E questa specie di angoscia che viene messa in luce dall’esistenzialismo; vedremo che si manifesta anche con una responsabilità diretta di fronte agli altri uomini che essa coinvolge. Non è un sipario che ci divide dall’azione, ma fa parte dell’azione stessa.” ( pgg. 42-44 “L’esistenzialismo è un umanismo” 1946)

Dunque questa correlazione tra libertà e scelta, provoca inevitabilmente uno stato di angoscia e nausea nell’uomo, nel momento in cui egli, proprio in quanto libero, è responsabile del mondo e di se stesso. Tutto ciò che accade nel mondo risale alla libertà e alla responsabilità della scelta originaria, e perciò nulla di ciò che accade all’uomo può esser detto “inumano”, perchè la stessa decisione è umana e comporta necessariamente delle responsabilità. Non vi sono casi accidentali; un avvenimento sociale che erompe subitaneo e mi trascina non viene dal fuori. Se io sono mobilitato in una guerra, questa guerra è la mia guerra, e io la merito:

“Io la merito in primo luogo perchè potevo sottrarmi ad essa col suicidio e la diserzione:

queste possibilità ultime devono sempre esserci presenti quando si tratta di affrontare una situazione.

Se non mi ci sono sottratto, io l’ho scelta: forse solo per mollezza, per debolezza davanti all’opinione pubblica, perchè preferisco certi valori a quelli del rifiuto stesso di far la guerra. Ma in ogni caso, si tratta di una scelta.” ( “Essere e nulla”, 1943)

Questo abbandono che deriva dalla totale libertà, coincide anche con il superamento di Dio, e la rispettiva caduta di tutti i valori che da esso derivavano. Ma “l’esistenzialismo si oppone energicamente ad un certo tipo di morale laica che vorrebbe togliere di mezzo Dio con il minimo danno possibile”, poiché, tuttavia, abbiamo la necessità di avere una morale che ci permetta di vivere degnamente, in una società, in un mondo civile; “dobbiamo fare quindi un piccolo lavoro che permetterà di mostrare che quei valori esistono ugualmente, in un cielo intelligibile, anche se Dio non esiste.” Con la morte di Dio -per dirla con Nietzsche- non può più esserci un bene a priori poiché non c’è nessuna coscienza infinita e perfetta per pensarlo, nessun valore può considerarsi giusto a prescindere. E’ in questo che consiste l’abbandono dell’uomo, egli non trova nè in sé né fuori di sé possibilità d’ancorarsi, non vi è determinismo, non ci sono scuse.

Ma bisogna tenere in mente che l’esistenzialismo non è ateismo nel senso che si esaurisce nel dimostrare che Dio non esiste; ma preferisce affermare: anche se Dio esistesse, nulla cambierebbe. Il problema non è la sua esistenza, ma bisogna che l’uomo ritrovi se stesso e si persuada che nulla può salvarlo da se stesso.

Dopo aver messo in discussione tutti quei valori precostituiti e predeterminati come dogmaticamente giusti, l’uomo deve ricrearsi, inventarsi, in quanto l’uomo è l’avvenire (vergine) dell’uomo; ovvero egli è l’unico che può dettare, in una società senza morale e senza Dio, i propri valori, passandoli attraverso il filtro della criticità, determinando così ciò che egli è e ciò che è l’Uomo.

In un mondo in cui tutto è ancora da inventarsi e da interpretare, non esiste una morale generale, universalmente accettabile, “nessuna morale generale ti può indicare ciò che è da fare, non vi sono segni pregiudiziali nel mondo.”; l’unica cosa che rimane, è un’interpretazione razionale di ciò che ci sta attorno, ed è in questo che, alla fine, consiste la libertà, nel poter giudicare razionalmente e indipendentemente il mondo in cui viviamo, e da questa nostra interpretazione ricavarne una morale, che ci caratterizzi, ci descriva, ci crei.

Queste possibilità, queste scelte, comportano necessariamente l’agire e l’impegno, contrariamente alle critiche dei marxisti, i quali definivano la filosofia di Sartre una filosofia borghese, contemplativa, che esclude l’azione. Invece, l’esistenzialismo si oppone fermamente al quietismo -atteggiamento di abbandono e rassegnazione- perchè la dottrina che Sartre propone dice:

“non c’è realtà che nell’azione […] l’uomo non è niente altro che quello che progetta di essere; egli non esiste che nella misura in cui si pone in atto; non è, dunque, niente altro che la somma dei suoi atti, niente altro che la sua vita” (pgg. 61-62 “L’esistenzialismo è un umanismo”, 1946)

Difatti, l’intento di Sartre, del suo saggio “L’esistenzialismo è un umanismo”, è divulgativo; esso vuole proclamare l’azione e l’agire come unici mezzi adatti a trasformare la società: “Sartre vi proclama esplicitamente la legittimità, la necessità della divulgazione per una dottrina che si fondi sull’impegno, sul concreto inserimento in un contesto umano e sociale, sulla finalità di non limitarsi a contemplare il mondo ma trasformarlo

(p.7 “L’esistenzialismo è un umanismo”)

“Ora, in realtà, per l’esistenzialista non c’è amore all’ infuori di quello che si realizza; non c’è possibilità d’amore all’ infuori di quella che si manifesta in amore; non c’è genio all’infuori di quello che si esprime nelle opere d’arte. […]
Un uomo si impegna nella propria vita, definisce il proprio volto e, fuori di questo volto, non c’è niente.
Evidentemente questa idea può parere dura a qualcuno che non è riuscito nella vita. Ma, d’altra parte, essa dispone gli animi a comprendere che soltanto la realtà vale; che i sogni, le attese, le speranze permettono soltanto di definire un uomo come un sogno deluso, come una speranza mancata, come un’attesa inutile; cioè di definirlo negativamente e non positivamente; tuttavia quando si dice “ Tu non sei altro che la tua vita”, questo non implica che l’artista debba essere giudicato unicamente dalla sue opere d’arte : mille altre cose contribuiscono egualmente a definirlo. Noi vogliamo dire che un uomo non è altro che una serie di iniziative, che egli è la somma, l’ordinamento, tutto l’insieme delle relazioni che costituiscono queste iniziative.” (pgg. 63-64 “L’esistenzialismo è un umanismo”, 1946)

Dopo aver fatto fronte a chi criticava l’esistenzialismo come una dottrina che si rassegna al quietismo, Sartre risponde anche a coloro che definiscono questa filosofia come una descrizione pessimista dell’uomo, in quanto mette in risalto il lato deteriore della vita umana, come appunto l’angoscia, la disperazione, e tutte quelle “situazioni-limite” come la nascita, la lotta, la sofferenza, il passare del tempo e la morte. Ma le riflessioni su queste tematiche, non fanno altro che rafforzare il significato della vita; per assurdo, se ne esalta la pienezza. Per Sartre “non c’è anzi dottrina più ottimista, perchè il destino dell’uomo è nell’uomo stesso; né come un tentativo di scoraggiare l’uomo dall’operare, perchè l’esistenzialismo gli dice che non può nutrire speranza se non nella sua azione e che la sola cosa che consente all’uomo di vivere è l’azione.”

Dopo aver specificato e analizzato i fulcri del pensiero esistenzialista, Sartre insiste anche sull’aspetto umano di tale dottrina. Infatti, per lui, l’e. Diventa umanismo nel momento in cui l’uomo viene concepito come superamento di se stesso, nel senso che egli è costantemente fuori di sé, solo proiettandosi e perdendosi fuori di sé egli può esistere. Così l’uomo viene messo al centro di questo superamento, ogni oggetto si riferisce a lui, alla sua esistenza e alla sua essenza. Questa connessione fra la trascendenza come costitutiva dell’uomo -non in senso religioso, ma nel senso di superamento- e la soggettività è quello che gli intellettuali definiscono “umanismo esistenzialista”.

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